Vi sveliamo il significato di 10 espressioni tipiche toscane per saziare la vostra curiosità di sapere: “Perché in Toscana si dice…..?”

10 espressioni tipiche toscane

Sì è vero, in Toscana non ci sono dialetti ma vernacoli, la nostra lingua è quella italiana, né più né meno, Dante ha dato il là, Manzoni ha proseguito a suonare lo spartito sciacquando i panni dei Promessi Sposi in Arno. Eppure esistono espressioni tipiche toscane, dialettali, lo possiamo dire, oltre a parole che al di fuori della regione rimangono vere e proprie incognite.

A quali espressioni tipiche toscane mi riferisco? Ad esempio a quelle che trovate qui sotto e che mi auguro possano saziare la curiosità insita nella classica domanda: “Perché in Toscana si dice...”

Signora anziana con espressione di ammonimento

1. Perché in Toscana si dice Granata?

Bada che ti tiro ‘sta granata ni’ggroppone, non significa che se mi fai arrabbiare ti tiro una bomba sulla schiena (groppone, da groppa), ma che ti tiro una più innocua scopa sulla schiena. Granata non ha niente a che vedere, infatti, né col color amaranto, né con l’ordigno bellico. È infatti un termine usato a Firenze, così come in altre zone della Toscana, per significare la scopa con cui si spazza per terra. Ecco perché le madri solevano un tempo minacciare i figli di rompergli una granata sulla schiena: era l’oggetto più a portata di mano quando quelli le facevano arrabbiare.

Ma perché granata? Perché prima le scope venivano fatte con la saggina o con scopa non conciata, cioè con rametti molto fini che mantenevano attaccate le loro bacche, dette anche coccole, ossia i grani, da cui: granata.

Ragazzo pulisce la casa con una scopa di saggina

2. Bere acqua di (o: dalla) cannella

La seconda espressione tipica toscana che ho scelto è una frase che si sente pronunciare spesso, soprattutto in fiorentino: bere acqua di cannella. Diciamolo subito, non vuol dire bere acqua fatta dall’omonima spezia. La “cannella” è una tipica parola fiorentina adottata in molti casi anche su scala nazionale. Si tratta in realtà, molto banalmente, del rubinetto: che appartenga al lavello di casa, a quello del bar, al lavandino del bagno, o a una qualsiasi derivazione esterna, sempre di cannella parliamo.

La parola nasce nel parlato ottocentesco quando i rubinetti, spesso di piombo, avevano una forma molto allungata. Anche la stessa mescita del vino si faceva spillandolo dalla botte con un legnetto bucato a forma di “bucciuol di canna”.

Il termine deriva dallo spagnolo/portoghesecanela e dal francese “cannelle”, che sta per il diminutivo di canna. Infatti, la “cannella” intesa come spezia, ossia la scorza della pianta essiccata, ha per l’appunto la forma di una piccola canna.

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Rubinetto versa acqua dentro un bicchiere di vetro con pianta sullo sfondo

3. Qual è il significato di Garbare?

Mi garba parecchio, o Non mi garba per nulla, sono decisamente tra le più comuni espressioni tipiche toscane. Garbare è l’equivalente volgare di “piacere”. L’esimia Accademia della Crusca ne dà una spiegazione etimologica abbastanza precisa, anche se poco affascinante:

“Garbare deriva dal sostantivo garbo – a sua volta probabilmente dall’arabo qālib «modello» – che ha come valore più antico in lingua quello di «bella forma, linea aggraziata». […] Garbare si riferisce quindi, primariamente, a un piacere estetico, e in effetti nella lessicografia è registrato nel significato di «piacere, andare a genio, riuscire gradito», detto di oggetti o persone.”

C’è poi un’altra spiegazione più interessante, mossa da alcuni studiosi, che fa derivare il verbo garbare dall’antica corporazione fiorentina dell’Arte della Lana, le cui botteghe si concentravano in via del Garbo, l’attuale via della Condotta

Gli artigiani, che producevano i panni più pregiati e apprezzati in tutta l’Europa dell’epoca, utilizzavano infatti una lana finissima proveniente dal Sultanato arabo di Garbo, nell’Africa Settentrionale, circostanza che evidentemente attribuiva il nome alla via.

Quindi a Firenze, via del Garbo era sinonimo di così alta qualità da arrivare, nel parlato, a estendere la parola a tutto ciò che piaceva fino a trarne fuori il verbo “garbare”.

Bambino contento mangia lamponi dalle dita della mano

4. Perché in Toscana si dice Cencio?

Cencio è sinonimo di straccio, un pezzo di tessuto vecchio, logoro. È un termine molto utilizzato in Toscana, sebbene lo si conosca anche in altre parti d’Italia. L’etimo è incerto, forse deriva dal latino cento -onis centone, insieme di pezzi disparati”.

E poi ci sono le tante espressioni tipiche toscane con cencio. “Essere ricoperto di cenci”: essere vestito male.
Cencio dice male di straccio”: Uno pessimo dice male di un altro pessimo. È l’equivalente di: Senti chi parla. O anche di: Senti da che pulpito viene la predica.
Essere nei propri cenci”: essere al massimo della forma. “Quand’era ne’ su’ cenci…”. Ossia: una persona anziana che da giovane era bella.
Essere bianco come un cencio”: essere pallido.

Chi vendeva cenci e stracci passando col barroccio sotto le finestre delle case richiamando le signore ad affacciarsi era il cenciaio: “Donne, c’è i’cenciaio!” urlava a squarciagola la mattina.

Infine il cencio è anche un dolce popolare, preparato nel periodo di Carnevale, tagliato in strisce fatte con sfoglia di farina, uova e zucchero, e poi fritte.

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I cenci o chiacchiere sono tra i dolci di Carnevale tipici della Toscana

5. Espressioni tipiche toscane: Prendersi un coccolone

Prendersi un coccolone”, in Toscana non significa mettersi in casa un tipo che ama le coccole, o un animale domestico particolarmente affettuoso, ma qualcosa di molto diverso, di opposto, si potrebbe dire.

Il coccolone, forse derivato da “coccola”, ossia “bussa, percossa”, è un termine toscano, conosciuto anche in altre regioni, che indica un bel colpo apoplettico fulminante, altro che baci e abbracci. “Sta’ attento, nini, che se’ttu seguiti di morto ti viene un coccolone”. Ossia: “Stai attento, te, che se continui a fare quello che stai facendo, ti prende un colpo”.

Oppure, il contrario esatto dell’avvertimento, l’augurio che il colpo apoplettico ci arrivi tra capo e collo: “Che gli venga un coccolone!. D’altronde, si sa, auguri o scongiuri, dipendono dallo stato d’animo di chi li invoca.

Infine il coccolone può essere tirato fuori anche per un pericolo scampato: “Madonna, stava per venirmi un coccolone!” O per un pericolo occorso e ormai passato: “Lì per lì m’è venuto un coccolone”.

Ragazza si mangia le unghie per la preoccupazione

6. Perché in Toscana si dice: “Andare in brodo di giuggiole

Andare in brodo di giuggiole significa “andare in solluchero, uscire fuori di sé dalla contentezza”. “Quando lo vede la va tutta in brodo di giuggiole”: Quando lo vede va fuori di sé dalla felicità.

L’espressione originaria è di provenienza toscana, come già citato nel primo Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612, in cui si menziona la “succiola”, ossia la castagna cotta nell’acqua con la sua scorza.
In seguito si è verificata un’alterazione da “succiole” a “giuggiole”, cioè i frutti del giuggiolo, impiegati, tra l’altro, in medicina, per i decotti contro la tosse, e in cucina, per marmellate e confetture.

Quanto allo stato di particolare contentezza a cui si allude nella metafora, si ricollega evidentemente alla zuccherosa bontà dei frutti stessi.

Coppia felice si guarda e sorride

7. Qual è il significato di “Aggeggiare

Aggeggiare” in Toscana non significa fare qualcosa, come potrebbe sembrare, ma il contrario esatto: stare lì a perdere tempo senza concludere nulla.
Deriva infatti da “aggeggio”, cosa da nulla, ninnolo, gingillo, e dunque aggeggiare è anche sinonimo di gingillarsi.

I’cche tu aggeggi?” è un’espressione che si sente spesso dalle nostre parti, e può sottintendere: cosa combini? Ma anche: cosa stai lì a perdere tempo? Muoviti!

Però esiste anche una sfumatura diversa se si dice: “Icché l’aggeggia quello?”. Che cosa aggeggia quello? In questo caso il significato cambia, s’insinua il sospetto: cosa sta combinando quello? Nel senso di: cosa sta tramando?

Questo è uno di quei verbi che risente molto dell’intonazione e del contesto.

8. Cosa vuol dire in Toscana: “Essere secco/a allampanato/a”?

“Madonna, e gli è secco allampanaho!: Madonna, è secco allampanato! Oppure: “Vien via, mangia, oh un tu lo vedi che tu se’ secca allampanaha!?” Ma dài, mangia, non lo vedi che sei secca allampanata?!

Già da queste due espressioni vernacolari si capisce che allampanato è un rafforzativo di secco, ossia uno magrissimo, pelle e ossa. Ma da dove deriva?

Pare che il verbo “allampanare” derivi da “lampana”, lampada. In passato le lampade semplici erano fatte con le membrane degli animali; nella similitudine quindi uno è talmente magro che pare che abbia la pelle trasparente come una membrana. Anche se non si può escludere che derivi invece dal francese antico lampas”, gola, là dove si riflettono gli stimoli più forti della fame.

Piedi nudi di una persona che si pesa sulla bilancia

9. Un ce n’è punto: un’espressione tipica toscana

Un ce n’è punto/a” in Toscana significa: non ce n’è per niente (di una cosa).
Punto, in tutta Italia, è la forma sostantivata del participio passato di pungere: il segno che si lascia pungendo. Il punto, appunto, è una porzione minima, non misurabile, di spazio. Qualcosa di piccolissimo.

Ecco che però in Toscana il punto c’è piaciuto al punto da farlo diventare addirittura un aggettivo: Non ho punta fame: Non ho nessuna fame. “Ne hai di quattrini?” “Punti”: Hai dei soldi? Nessuno. E ancora: Non mi piace né poco né punto: Non mi piace per niente.

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Scatola di latta vuota

10. Parlare a vanvera

È un’espressione tipica toscana che si usa anche nell’italiano corrente, ma l’abbiamo inventata noi toscani. Compare infatti per la prima volta in un testo di Benedetto Varchi – storico fiorentino – nel 1565. C’è chi fa notare che la radice di vanvera somigli a quella di vano. C’è invece chi sostiene che derivi dal “gioco della bambàra”, una locuzione, forse di origine spagnola, con la quale si alludeva a una perdita di tempo. Tanto che in certe zone della Toscana si dice ancora “parlare a bambera”.

Detto questo, oggi gli etimologisti sono propensi a interpretare vanvera come una variante di fanfera, parola di chiara origine onomatopeica, ossia “cosa da nulla”: fanf-fanf, infatti, rispecchia il suono di chi parla farfugliando, senza dire niente di sensato.

L’importante, alla fin fine, è non parlare a vanvera.

E ora, cari amici e care amiche di TP, curiosi di scoprire i significate delle espressioni tipiche toscane, sta a voi trasmetterci le vostre impressioni, le parole di cui vorreste conoscere l’origine. Scriveteci qui sotto, su Facebook, su Instagram, e ci cureremo di soddisfare le vostre richieste.

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