22 Novembre 2017 2020-10-07T14:21:00+02:00 Stendhal e Firenze, la sindrome del bello TuscanyPeople Vieri Tommasi Candidi Share: Nel 1817 lo scrittore Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal, giungeva a Firenze e varcava le porte della Basilica di Santa Croce, uscendone sconvolto. Ecco la vera storia della sindrome di Stendhal. La vera storia della sindrome di Stendhal Sapevo di essere brutto e forse è per questo che ho amato alla follia le donne e il bello, di cui l’arte è la massima sublimazione. Tutti conoscono la mia Storia della pittura in Italia, La Certosa di Parma, Il rosso e il nero, tanto per citare alcune delle mie opere più famose, ma forse non tutti sanno che il mio sogno più intimo e segreto era di diventare un seduttore e trionfare sulla timidezza che letteralmente mi attanagliava, soddisfacendo così la mia vanità, lo ammetto, e il mio amore per l’amore. Avevo lineamenti grossolani, il collo mi s’infossava sulle spalle, ero grasso, e sapevo che presto avrei perso i capelli e che avrei dovuto mascherare la calvizie con un parrucchino. Inoltre, benché non fossi basso, apparivo tozzo, con la vita larga e le gambe corte e sottili. Per questo non mi stancavo mai di curare ossessivamente il mio aspetto e d’indebitarmi con il sarto. L’eleganza doveva mascherare la mia bruttezza, così come il cinismo del dandy copre la sensibilità del romantico. Il viaggio di Stendhal da Parigi fino all’arrivo a Milano A soli sedici anni giunsi a Parigi col fermo proposito di essere un seduttore, ma per la prima volta in vita mia mi resi conto che non ero nient’altro che un ragazzo sconosciuto che passava inosservato. Pieno di delusione, l’anno dopo mi arruolai nell’armata del Primo Console che era partita da qualche giorno per l’Italia. Signori: «ero assolutamente ebbro, pazzo di felicità e di gioia. Qui comincia un’epoca di entusiasmo e di felicità perfetta». A Milano ricordo feste in sale sfavillanti di donne belle ed eleganti insieme a uomini esperti e disinvolti. Io invece, a diciassette anni, ero orgoglioso, timido e inibito, e per gelosia d’una certa signora Martin, finii goffamente per battermi in duello con Alexandre Pétiet, il figlio del ministro, procurandomi una lieve ferita a un piede. Non contento, minacciai di sfidare anche il mio capo-ufficio Joinville, sempre per la stessa ragione: gelosia. Mi ero perdutamente innamorato di Angela Pietragrua, sorella della famosa soprano Giuseppa “Peppina” Borrone Chappuis – «sublime sibilla, terribile nella sua bellezza folgorante e soprannaturale» che finii per rappresentare nel personaggio di Sanseverina ne La Certosa di Parma -, che pure non sarebbe stato troppo difficile conquistare, ma alla quale, ahimè, non fui capace di dichiararmi se non ben dieci anni dopo. Il risultato è che persi la mia innocenza in una casa di piacere, nel maggio del 1801, ricavandone oltretutto una malattia venerea. Il Grand Tour in Italia Passarono gli anni, tra guerre, lavori letterari, incarichi di prestigio e amori fulminanti. Nel settembre del 1811 rientrai a Milano e già la sera stessa mi recai alla Scala. Il giorno dopo mi presentai tutto infuocato di passione da quella stordente bellezza della Pietragrua, stavolta deciso a farla mia. Bandita la timidezza, mi dichiarai apertamente, e in risposta lei mi chiese: «Perché non me lo diceste allora?». Ottenuta la sospirata vittoria, potei continuare il mio viaggio in Italia nel quale mi spinsi fino a Pompei. Cercai di capire e amare la pittura, per la quale non avevo lo stesso intuito che per la musica, e proprio a Firenze, durante le lunghe passeggiate lungo l’Arno, scoprii di avere un mio gusto – magari discutibile – ma ciò che m’importava era vedere e amare ciò che guardavo. 👉 Leggi anche: Sull’Arno d’argento si specchiano i ponti di Firenze e il firmamento La prima e vera sindrome di Stendhal Nel 1817, durante il mio Grand Tour d’Italia, mi trovavo a Firenze, e come al solito non avevo potuto trattenermi dal girellare per il centro ad ammirarne l’infinita bellezza. Entrai nella chiesa di Santa Croce, e dopo un po’ iniziai a sentirmi male. Il cuore mi batteva forte, provavo vertigini, capogiro. Tutte quelle opere di straordinaria fattura, così compresse in uno spazio limitato, erano davvero troppo per un amante dell’estetica come me. «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere». Queste poche righe sono le prime che hanno descrivono ciò che qualche anno più tardi venne definita sindrome di Stendhal. Si definisce sindrome di Stendhal o (sindrome di Firenze) quell’affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza, specialmente se esse sono compresse in spazi limitati (Fonte: Wikipedia) Persona indesiderata a Milano Alla fine del luglio del 1827 tornai in Italia. Dapprima a Genova, poi per un mese tra Napoli e Caserta, inoltre visitai anche Ischia e Pompei, lasciando sulla parete del tempio di Iside un graffito col mio nome, tuttora visibile. A ottobre fui a Roma, poi per due mesi a Firenze, dove frequentai Vieussieux, il fondatore de L’Antologia, nella quale cercai di far pubblicare un articolo contro Cousin, ma fui osteggiato da Tommaseo. Conobbi Leopardi e ritrovai Lamartine, allora primo segretario dell’ambasciata francese. Dopo aver visitato, a Venezia, il poeta Pietro Buratti ed esser passato a Ferrara, nel gennaio del 1828 mi trovai a Milano, dove presentai richiesta alla polizia per un permesso di soggiorno di quindici giorni. Non solo mi fu negato, ma ricevetti anche l’ingiunzione di lasciare immediatamente la città in quanto persona indesiderata, soltanto perché nella mia opera Rome, Naples et Florence erano presenti espressioni ingiuriose contro il governo austriaco. Lasciai quindi Milano per tornare a Parigi. Le autorità austriache si preoccuparono poi, nel novembre del 1830, di sottoporre a censura tutte le mie pubblicazioni 👉 Leggi anche: Quando Manzoni e Leopardi s’incontrarono al Vieusseux L’amore con Giulia Rinieri de’ Rocchi Nel gennaio del 1830 ricevetti una dichiarazione d’amore da parte della senese Giulia Rinieri de’ Rocchi, di antica famiglia patrizia in decadenza, che da qualche anno viveva a Parigi col suo tutore. Divenimmo amanti, e lei era prontissima a sposarmi, ma il tutore mi rifiutò la sua mano. Rimanemmo comunque amanti per tutta la vita, anche dopo il matrimonio d’interesse col cugino Giulio Martini. Per qualche anno, dal 1831 a 1836, fui console in Italia, periodo nero in cui attraversai vicissitudini di varia natura e che non amo ricordare. Tornato a Parigi, rividi Giulia Rinieri de’ Rocchi che risiedeva nella nostra capitale coi due figli, mentre il marito – che svolgeva la sua carriera politica nel Granducato di Toscana, e che poi fu ministro della Pubblica Istruzione nel 1859 – era dovuto rientrare a Firenze. Purtroppo durò poco, dal 3 agosto al 27 settembre 1838. Quando lei lasciò la Francia mi scrisse: «Io parto e ne ho il cuore spezzato. Sono col cuore totalmente vostra». Rividi di nuovo Giulia nel 1840, a Firenze. Insieme al pittore Constantin avevamo concepito il progetto d’una guida ai dipinti conservati nella città di Roma: Idées italiennes sur quelques tableaux célèbres. La prima parte fu stampata proprio nell’attuale capoluogo toscano dall’editore Giovan Pietro Vieusseux. 👉 Leggi anche: Alba Donati e il Gabinetto Vieusseux: ineluttabile incrocio di destini Les privilèges Sentivo che stavo invecchiando. Gli anni e le malattie cominciavano a pesarmi. Mentre nutrivo il mio sincero amore per Giulia, che a Firenze mi ospitava a palazzo Riccardi, io, che non ho mai creduto in Dio, ironicamente scrissi Les privilèges, immaginando che l’Altissimo mi concedesse una morte istantanea, d’infarto, mentre in vita, una costante virilità, un corpo sano e bello, che potesse far innamorare qualsiasi donna e trasformarmi in qualunque altro essere. La verità è che fino in fondo non mi sono mai piaciuto. Il 23 marzo del 1842 lasciai questo mondo nella maniera in cui avevo desiderato. Quel dio in cui non credevo mi aveva esaudito. Una delle cose che mi è rimasta più impressa della mia vita terrena è Firenze, tanto bella da farmi star male, tanto che ancora oggi voi utilizzate l’espressione “sindrome di Stendhal“. Una bellezza che ho sempre ricercato in ogni donna, in ogni luogo, in ogni arte, e che raramente ho trovato così classica e pura come in quella città. 📍PER APPROFONDIRE: 👉 “Maledetti” ma illustri toscani: i più famosi dal dopoguerra ai nostri giorni 👉 Dostoevskij a Firenze, tra Chianti, passeggiate e la stesura de L’idiota 👉 Cimabue, maestro di Giotto e babbo della pittura italiana La Toscana è la tua passione? Anche la nostra! Teniamoci in contatto Riproduzione Riservata ©Copyright TuscanyPeople Share: Informazioni sull'autoreVieri Tommasi CandidiScrittore & Ambassador of Tuscany [fbcomments url="https://www.tuscanypeople.com/sindrome-di-stendhal/" width="100%" count="on" num="3"]