L’Arte dei giudici e notai fu una delle Arti maggiori delle Corporazioni di Arti e Mestieri di Firenze, oltre che una tra le più potenti e prestigiose della città.

 

L’Arte dei Giudici e Notai: sapienza e prestigio al servizio di Firenze

L’appartenenza all’Arte dei Giudici e Notai aveva un grandissimo prestigio e lustro sociale, nella Firenze medievale. Tanto rappresentava un segno distintivo che si evidenziava anche nell’abbigliamento. I membri indossavano la guarnacca, un abito lungo, di colore rosso, e un berretto di panno della stessa tinta incoronato da una pelliccia. I giudici venivano riveriti con l’appellativo dominus, riservato anche ai cavalieri, mentre nei confronti di avvocati e notai si usava un più generico ser.

Domenico del Ghirlandaio, affresco Oratorio dei Buonomini di San Martino a Firenze

Il Proconsolo

La massima carica dell’arte era il Proconsolo (da cui via del Proconsolo, proprio dove c’è il palazzo del Bargello) che doveva avere almeno quarant’anni, essere iscritto da venti alla corporazione, ed essere stato in precedenza Console.

Il Proconsolo restava in carica quattro mesi e dirimeva ogni controversia tra i soci, vigilando sulla loro condotta. Il potere di espellere un membro era di appannaggio del Collegio dei Consoli, composto da otto membri, due giudici e sei notai, proporzione numerica che rispecchiava l’effettiva composizione degli iscritti: nel 1339 a Firenze si contavano 80 giudici e 600 notai, su una popolazione che raggiungeva quasi i 100.000 abitanti.

Nel Trecento il Proconsolo divenne il rappresentante di tutte le 21 corporazioni della città e la terza carica più importante del Comune, dopo il Gonfaloniere di Giustizia e la Signoria.

Corte interna di Palazzo Vecchio a Firenze

I requisiti di accesso all’Arte dei Giudici e Notai

Per accedere all’Arte dei Giudici e Notai ci voleva un lungo periodo di preparazione che soltanto le famiglie più ricche si potevano permettere. Ai fini dell’immatricolazione occorreva verificare alcuni requisiti personali e morali dei candidati: non erano ammessi chierici, ebrei, insegnanti elementari, figli illegittimi, forestieri e, per quasi tutto il XIII secolo, chiunque non si dichiarasse apertamente di parte guelfa.

 

Non potevano accedere all’antica Arte dei Giudici e Notai i minori di 20 anni, età che poteva scendere a 18 se si era figli di un giudice o di un notaio già iscritto. Le due carriere rimanevano tra loro ben distinte e non sovrapponibili, e anche le modalità di ammissione erano diverse: i giudici, già dottori in legge, si limitavano a versare la tassa d’iscrizione, mentre per l’accertamento dell’idoneità dei notai si richiedeva il superamento di 3 severissimi esami.

I giovani aspiranti notai erano infatti obbligati a frequentare i corsi dell’Università di Bologna o di Padova, oppure quelli dello Studio fiorentino, in cui non solo venivano impartiti gli insegnamenti di diritto e giurisprudenza, ma anche quelli di grammatica e lingua latina, indispensabili per la redazione degli atti pubblici.

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Archiginnasio dell'Università di Bologna

I giudici e i processi

Perché fosse garantita l’imparzialità nei processi, i giudici che presiedevano le corti di giustizia fiorentine erano di regola forestieri, mentre i giudici nati a Firenze esercitavano in altri comuni.

Le pene all’epoca erano durissime, ai nostri occhi inumane, anche perché, come si può immaginare, le leggi a garanzia dell’imputato erano poche, teoriche e sommarie. Il codice penale fiorentino prevedeva la fustigazione per i bestemmiatori, il taglio della mano per i ladri e chi si macchiava del reato di falso – pena che poteva essere inflitta sia ai notai che ai cambiatori di monete – l’evirazione per gli omosessuali, la decapitazione o l’impiccagione per gli assassini.

Disegno dell'impiccagione di Bernardo Bandini realizzata da Leonardo da Vinci

Per estorcere la confessione si praticava senza problemi la tortura. A partire dagli inizi del Cinquecento s’istituì la gogna: il condannato – con la gola stretta dentro un pesante anello di ferro appeso alla Colonna dell’Abbondanza al Mercato Vecchio (oggi Piazza della Repubblica) – veniva esposto al pubblico ludibrio.

Le condanne a morte si eseguivano al di fuori delle mura cittadine, in corrispondenza di Porta alla Croce, l’odierna Piazza Beccaria. I condannati venivano accompagnati su un carretto che percorreva la via dei Malcontenti (il nome già dice tutto) e giungeva al prato della Giustizia in cui erano montate forche e patiboli permanenti. Oltre alla decapitazione, all’impiccagione e al rogo, una delle pene più tremende era la propaggine, una buca in cui il reo veniva seppellito ancora vivo a testa in giù.
La pena di morte fu abolita dal Granduca Pietro Leopoldo nel 1782: la Toscana fu il primo stato abolizionista in Italia.

Ascia del boia in una rievocazione medievale

I notai

Il lavoro del notaio, invece, era più o meno quello attuale: consisteva in prevalenza nella stesura e registrazione di atti ufficiali e pubblici, sia che si trattasse di contratti, transazioni, inventari, rogiti o testamenti. Questo lo rendeva collaboratore ideale delle istituzioni cittadine e trait d’union tra il popolo, in larga misura analfabeta, e le carte che occorrevano per far valere i propri diritti.

Il mestiere veniva perlopiù svolto nella sua abitazione, in una stanza adibita all’esercizio della professione, ma alcuni disponevano di una vera e propria bottega, generalmente situata in centro, vicino al palazzo comunale o nei pressi delle chiese maggiori.
Quanto agli onorari relativi alle prestazioni, venivano pagati in denaro o in natura, sotto forma di dozzine di uova, formaggi, cacciagione, selvaggina, o botticelle di vino.

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Statue sulla chiesa di Orsanmichele a Firenze

L’accesso privilegiato alle istituzioni pubbliche permise a un certo numero di notai di intraprendere la carriera politica, tanto che in molti furono più volte eletti nei consigli cittadini, a dimostrazione del grado di potenza raggiunto dalla categoria. Tra i membri celebri che appartennero alla corporazione si ricordano Brunetto Latini, Coluccio Salutati e Francesco Guicciardini. Erano inoltre figli di notai, Masaccio e Brunelleschi.

Del patrono, San Luca, l’Arte dei giudici e notai fece realizzare nel 1601 una scultura in bronzo, a opera del Giambologna, che fu collocata nel tabernacolo appartenente alla corporazione nella chiesa di Orsanmichele.

 

 

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